ANIMALI

BIOVIOLENZA E GLI ALLEVAMENTI “ETICI”

il miglio verde
La “carne felice”: che cos’è? Esiste davvero? – Di Marco Reggio

Che cos’è la carne felice? “BioViolenza” denuncia le retoriche degli allevamenti “etici”. Lo United Kingdom’s Farm Animal Welfare Council

Che cos’è la carne felice? L’osservatorio antispecista BioViolenza denuncia le retoriche degli allevamenti etici.

Nato oltre 10 anni fa, l’osservatorio definisce con questa espressione una serie di modalità di produzione di carne e derivati animali, di retoriche volte a giustificarle, di discorsi prodotti dall’industria della carne.

Vi è mai capitato, criticando la violenza degli allevamenti, di sentirvi rispondere:

“io mangio poca carne, e la compro dal contadino che rispetta le bestie e l’ambiente”?

Ecco, l’interlocutore sta proprio evocando l’idea di happy meat.

L’industria della carne, gli allevamenti buoni, il bio

L’industria della carne tende a nascondere all’opinione pubblica la maggior parte dei suoi siti produttivi, gli allevamenti intensivi, perché le pratiche di questi ultimi sono difficili da accettare, anche per chi non ha una coscienza politica animalista o antispecista.

Al tempo stesso, però, ostenta l’esistenza degli allevamenti buoni.

Talvolta vuole sottolineare che, accanto alla produzione intensiva, esistono le aziende bio, ponendo l’accento sulla qualità e la salubrità del prodotto.

mucca allevamento

In altri casi, emerge l’aspetto ambientale:

“è possibile produrre carne, latte, uova inquinando poco, sprecando poca acqua e rispettando il pianeta!”

Insomma, lo sfruttamento sostenibile. Oppure, si evocano idee come il km zero, la produzione familiare o il mito della fattoria felice (quest’ultimo, efficacemente smontato da un bellissimo pamphlet di Troglodita Tribe).

Logo di BioViolenza. Un uomo sta tagliando la gola a un maiale mentre regge un rametto di ulivo. Sopra e sotto la scritta: BioViolenza - al mattatoio sani e felici.

Animal welfare

In altri casi, viene articolato un discorso esplicito sul cosiddetto benessere animale. Le misure adottate dagli allevamenti non intensivi, in questo caso, sono spesso più simboliche che sostanziali: qualche centimetro di spazio in più nelle gabbie, qualche arricchimento ambientale, qualche settimana di vita in più concessa a chi verrà macellato, qualche nozione di etologia animale. Per quanto compatibile con il profitto, s’intende. Qualche concessione, infatti, può persino migliorare la produttività o essere funzionale a ottenere merci con caratteristiche particolari, destinate a fruttuose nicchie di mercato.

Il concetto stesso di benessere risulta però contraddittorio, se associato a una condizione di prigionia e di violazione del consenso. Così come sono contraddittorie alcune sue declinazioni ammantate di etica e scientificità, ad esempio le Cinque libertà elaborate dallo United Kingdom’s Farm Animal Welfare Council.

Dopotutto, per quanto il trattamento riservato a un vitello o a un maiale sia compassionevole o dolce, questo alla fine dovrà essere macellato e smembrato. E quale individuo – umano o non umano – presterebbe spontaneamente il consenso ad essere ucciso?

Che cos’è la carne felice? Una questione di retorica

Ma l’allevamento sostenibile non è tanto un problema come struttura produttiva, quanto come discorso. Che cos’è la carne felice? La carne felice è una retorica, appunto.

Torniamo al nostro interlocutore che, con una certa coda di paglia, ci rassicura che compra solo carne selezionata e di provenienza in qualche modo più accettabile. Sappiamo bene che nella maggior parte dei casi questo interlocutore sta mentendo.

Allevamento estensivo - depositphoto

Certo, può darsi che faccia parte di un GAS (Gruppo di Acquisto Sostenibile), può darsi che di tanto in tanto riesca a reperire alimenti animali dal contadino di fiducia che chiama le sue bestie per nome e le accarezza (prima di spedirle al macello…). Tuttavia, continuerà a consumare principalmente la carne del supermercato, cioè degli allevamenti intensivi.

Quando non è così, si tratta di eccezioni. E non potrebbe essere diversamente.

Sarebbe davvero possibile soddisfare l’esorbitante richiesta di carne e derivati proveniente dai paesi ricchi solamente con il ricorso a forme di allevamento estensivo, con minor uso di farmaci, minore produttività, e costi evidentemente più alti anche per i consumatori?

Evidentemente no. Per questo motivo, l’insistenza della falsa coscienza carnista e delle strategie di marketing sulla carne felice è principalmente un espediente retorico. 

Evocare l’allevamento etico serve a spostare l’attenzione lontana dagli allevamenti intensivi, affinché questi possano continuare a produrre al ritmo necessario a soddisfare lo stile di consumo dei paesi industrializzati.

Contestare la carne felice

Per questo, il progetto BioViolenza, così come, in seguito, altri gruppi, ha scelto di puntare l’attenzione su queste forme di produzione. Forme di produzione che, dal punto di vista quantitativo, rappresentano una nicchia, ma che sono strategiche per l’industria della carne.

Lo sfruttamento animale è un settore ben conscio del fatto che le sue principali pratiche sono difficili da mandar giù per una grossa fetta di opinione pubblica.

Non si tratta soltanto di persone politicizzate, con una coscienza antispecista, di persone vegetariane o vegane, ma di ampio insieme di consumatori che, pur con grosse contraddizioni, possiede un livello minimo di sensibilità nei confronti degli animali non umani.

Questi consumatori hanno bisogno di sapere che, di tanto in tanto, possono andare dal contadino di fiducia o anche solo che in linea di principio potrebbero farlo.

In questo modo, nel frattempo, continueranno a consumare i soliti prodotti senza pensare troppo a ciò che c’è dietro e che oggi è più difficile da negare.

Una contestazione del collettivo BioViolenza all'evento Terra Madre nel 2010. Due attiviste interrompono l'evento conclusivo del festival alla presenza di Carlo Petrini, Vandana Shiva e altri ospiti.

Che cos’è la carne felice? Perché occuparsene? Evidentemente, ci si potrebbe domandare: perché criticare un fenomeno di nicchia, opinabile ma meno scandaloso di altri, quando al mondo esistono gli allevamenti intensivi, i mattatoi industriali e le multinazionali specializzate nello sfruttamento animale?

La risposta è che, in primo luogo, contestare la carne felice non impedisce di lottare contro la produzione industriale di carne. In secondo luogo, smontare questo falso mito è fondamentale per togliere ossigeno alla propaganda dello sfruttamento animale.

Del resto, prendere sul serio le emozioni e le esigenze dei soggetti non umani significa anche avere il coraggio di affermare che

non esistono allevamenti buoni,

non esistono macellazioni umanitarie e

non esiste benessere senza libertà.

Milano, 28/08/2024

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