DESERTO DI ATACAMA, CIMITERO TOSSICO A CIELO APERTO DELLA FAST FASHION
Il deserto cileno ormai trasformato in una discarica di circa 40.000 tonnellate di vestiti
Le dune del deserto di Atacama non sono più color sabbia ma un ammasso di colori indefinito a causa di un disastro ambientale sinora invisibile al mondo.
Quante volte ci lasciamo abbagliare dal basso prezzo di un vestito? E quanto spesso poi lo usiamo due volte per poi buttarlo via? Purtroppo questa “trappola” in cui sempre più spesso cadiamo ha delle ripercussioni devastanti per il nostro pianeta.
Eccone una : Il deserto di Atacama, patrimonio dell’Unesco, è oggi a tutti gli effetti una discarica di vestiti invenduti o scartati. Da qualche anno si stanno formando nuove dune che nulla hanno a che vedere con la sabbia. Si tratta di colline di vestiti provenienti da tutto il mondo.
L’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo
Il costo ambientale della cosiddetta “moda veloce” è poco pubblicizzato e poco noto. La verità, tuttavia, è che la “moda veloce” utilizza una quantità enorme di acqua, qualcosa come 7500 litri per un paio di jeans, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, ovvero la quantità equivalente di acqua che una persona media beve in sette anni.
Con questo termine si fa riferimento a un settore dell’abbigliamento che realizza abiti di bassa qualità a prezzi molto ridotti e che lancia nuove collezioni continuamente e in tempi brevissimi. In pratica, si parla delle grandi catene che si trovano ormai in ogni città. A un primo sguardo niente di così grave, ma ci siamo mai chiesti cosa si nasconde dietro ad aziende che raggiungono immensi profitti vendendo prodotti a prezzi così bassi?
Da qualche anno ormai il settore dell’abbigliamento ha cominciato a rientrare sempre di più nella mentalità dell’usa e getta e la globalizzazione ha fatto il resto: capi spesso ideati in un paese, prodotti in un altro e venduti in tutto il mondo a un ritmo sempre più crescente.
Dove vanno a finire i vestiti inveduti o scartati?
Nel Paese sudamericano da circa quarant’anni arrivano gli abiti usati, scartati o invenduti prodotti in Cina e in Bangladesh e provenienti dall’Europa, dagli Stati Uniti o da alcuni Paesi dell’Asia.
Ogni anno 59mila tonnellate di vestiti arrivano nel porto di Iquique, nel Cile settentrionale, ma non tutti quei vestiti vengono venduti. Sono 39mila le tonnellate di rifiuti tessili destinate alle discariche abusive. Si tratta di materiale non biodegradabile perché contenente sostanze chimiche e impiegheranno quindi fino a 200 anni per decomporsi.
Alla luce di queste considerazioni, le immagini del deserto di Atacama, nel quale non confluiscono soltanto gli indumenti usati, ma anche tonnellate di abiti invenduti, fanno davvero rabbrividire. Il problema di un enorme cimitero di vestiti che riempie il deserto di Atacama, un luogo così lontano da noi, non è qualcosa che ci riguarda così poi da lontano.
La soluzione, anche e soprattutto nella nostra quotidianità, potrebbe essere quello di estendere il ciclo di vita dei prodotti. Contribuire alla riduzione dei rifiuti e generare ulteriore valore attraverso condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile.
Proviamo a riflettere su quanto dolore il nostro eccesso di consumismo provochi all’ambiente e ogni volta che saremo tentati di acquistare un abito di cui potremmo fare a meno, ci domanderemo: “Ne ho davvero bisogno?”. Un piccolo gesto che potrebbe rappresentare un decisivo contributo alla salvaguardia del nostro pianeta.
Iaia Mingione
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Milano, 25/11/2021